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La città è un buco.

 

La città è un buco e suoi abitanti respirano. La città è un buco e vi si respira dentro. I suoi vicini sono dentro, sono nel buco. I suoi vicini, i suoi abitanti uomini e donne, tutti vi respirano, tutte le persone dentro, nel buco. La città è un buco e le persone che leggono, leggono tutti. Tutti vorrebbero leggere. Tutti lo vogliono, tutti a un certo punto desiderano. Tutti desidererebbero parlare. La città è un buco, tutti al suo interno. Tutti i vicini con il giornale. Il giornale è un buco, poiché il buco è là tutti i giorni. É nella città. La città è un buco, la città respira, i suoi vicini pronunciano delle parole. Gli piacerebbe parlare. I vicini parlano, hanno voglia di fare conversazione, di creare dei legami. Tutta la città è un buco ha legami. Tutta la città è un buco. Il legame forma il mondo. Il mondo è aggregante, è un collante, è una salsa. Il buco funziona. I giornali sono stampati il giorno prima. I giornali sono per il giorno dopo, o per il giorno stesso. Il giorno stesso è un buco. Il giorno prima del giorno dopo. Tutto è un buco. Ma la città è un buco. E i suoi vicini ci dormono dentro. I suoi vicini sognano. Sognano di cascare, sognano di cadere, ma non si fanno troppo male. Si rialzano. La città è un buco. Le persone si rialzano. Si svegliano. Sono nel buco, ma va tutto bene, il giornale è stampato il giorno prima per il giorno dopo. Nel mezzo c'è il quotidiano. Fra i due, i vicini hanno la scelta, possono dormire o cadere. E quando dormono, cadono sempre. La città è un buco dove cadere.

 

 

 

La città è con i suoi abitanti e respira. É tutto dentro. Respira. É un buco, è un buco che c'è in tutti gli abitanti. Vogliono tutti parlare. Vogliono tutti avere un linguaggio. Vengono a comprare il giornale. Il giornale è un buco per gli abitanti delle città. La città è un buco. Il buco funziona. I vicini continuano a dormire. I vicini hanno comprato una macchina. O è un motorino. O è un camper. Vanno nella loro “tenutina”. Il loro buchino fuori  città. Ma la città è un buco. Ci vanno col camper, hanno comprato anche una moto. Distruggono gli alberi. Non gli piacciono gli alberi con i frutti dentro. Gli alberi con i fiori. Non gli piace tutto ciò. Gli piace il prato. Hanno un bel prato pulito e sorridono mettendo le mani sulle anche.

 

 

 

La città è un buco. I vicini hanno messo le mani sulle anche. I vicini hanno messo il linoleum. I vicini hanno messo le lastre. I vicini hanno i doppi vetri. E poi hanno fatto dei buchi. Hanno messo dei buchi dappertutto. E poi un giorno il vicino si rompe il muso. E in città si sa cosa vuol dire, lo si legge sui giornali. Si legge che un vicino si è rotto il muso. Vuol dire che era in moto in città, è arrivato in centro. La città è un buco ed è scivolato. Lo si legge sui giornali. O altrove. Lo si legge in città, o altrove sui giornali. O allora, lo si legge altrove. Non sui giornali, ma altrove. I giornali sono un buco, idem gli abitanti, idem il loro pensiero. E anche altrove. Altrove è un buco. Hanno un unico pensiero. É il pensiero degli abitanti del buco, di qualsiasi buco. Il buco di un altrove o il buco di qui. Hanno un unico pensiero, e vi si puliscono dentro. Un giorno, il vicino è scivolato con la moto, o forse è sua figlia. Monta, la figlia sulla moto. É una bambina piccola. E per scherzare la monta sulla moto, e mette in moto, per scherzare. E la moto la schiaccia. É così in città. Perché la città un buco, e i suoi abitanti sono dentro. E si scherza. Ed è così.

 

 

 

TRADUCTION : Barbara Puggelli

UN GIORNO

un giorno

mio padre posa la borsa contro la porta

 

un giorno

esce tutte le mattine per lavorare

 

un giorno

prende l'autobus per denain

 

un giorno

riporta caramelle dalla fabbrica

 

un giorno

tira la lattina sotto la tavola

 

un giorno

mi vede sulla staccionata

 

un giorno

mia zia lo prende per il culo

 

un giorno

riporta solo il vino dalla spesa

 

un giorno

lo vedo in fondo alla strada nuova

 

un giorno

mia madre nasconde le bottiglie

 

un giorno

mia sorella dice che è gentile

 

un giorno

mia madre lo serve fino all'orlo

 

 

un giorno

accarezza il gatto in poltrona

 

un giorno

batte su dei bidoni

 

un giorno

mette un posacenere sotto il bicchiere

 

un giorno

civetta non lo fare

 

un giorno

dice cose complicate

 

un giorno

mette il carbone nella caldaia

 

un giorno

sale le scale

 

un giorno

mi compra dei dizionari

 

un giorno

riprende la discussione

 

un giorno

taglia la corda durante un matrimonio

 

un giorno

mi tiene uno sproloquio sulla vitamina a, b, c, d

 

un giorno

prova il suo patois con un vicino

 

un giorno

allontano la sua mano in macchina

 

un giorno

si dà da fare con le bobine di spago

 

un giorno

dissotterra la bambola di mia sorella

 

gli dico sì sì sì sì

 

un giorno

sua madre l'addormenta con le sue storie

 

un giorno

ci mette un sacco di tempo

 

un giorno

si lava col guanto da bagno

 

un giorno

è vestito di blu con il berretto e apre la bocca

 

un giorno

riacciuffa la goccia al naso con la mano

 

un giorno

ha le vene sul viso

 

un giorno

lubrifica di nuovo il fucile

 

un giorno

mi parla di mia madre

 

un giorno

scappa da zia marthe

 

un giorno

riporta le mele nella carriola

 

un giorno

incrocia le mani sulla pancia

 

un giorno

torna tutti i giorni sbronzo

 

un giorno

dice non ho carne

 

un giorno

mi fa delle smorfie

 

un giorno

corregge gli errori di francese

 

un giorno

non smette di tacere

 

un giorno

mette le cose ultra lentamente

 

un giorno

recita un poema di Maurice Fombeure

 

un giorno

resta nel mezzo davanti alla TV

 

un giorno

il gatto è sulle sua ginocchia

 

un giorno

piega le gambe nella 4CV

 

un giorno

guardo l'uomo che si ritira

 

un giorno

si fa graffiare dalla mamma

 

un giorno

trafigge il cuore del ragno con uno spillone

 

un giorno

fuma una sigaretta e pensa

 

un giorno

c'è odore di piselli spezzati

 

un giorno

 dice non toccare rompi tutto

 

un giorno

le scale scricchiolano in continuazione

 

un giorno

la mamma dice ancora ho già salato

 

un giorno

vedo la terra da vicino

 

un giorno

è sfocato dietro la biancheria

 

un giorno

incrocia le gambe in cucina

 

un giorno

lo zio è rauco

 

un giorno

vedo l'ombra del vicino

 

un giorno

mio padre gira intorno alle mele

 

un giorno

mio fratello scappa dagli spogliatoi

 

un giorno

mia madre dice ah la la! Lascia perdere, dai!


Traduction en italien Barbara Puggelli

 

l'invention de la vie

Ce matin même j’ai inventé une bombe qui va faire sauter la planète toute entière. C’est une invention toute simple. Personne n’y avait encore pensé. Pourtant c’était très simple à faire. J’ai fait ça dans ma cuisine, juste sur ma table en formica. Une bombe toute bête et rien de plus simple pour la manœuvrer. Il y a juste un gros bouton, avec marqué dessus : « boum ? ». On appuie et la planète vole en éclat. La planète toute entière je dis bien. Ce matin je me lève, hop, j’invente la petite bombe révolutionnaire en cinq minutes sur le coin de ma table en formica. Personne n’y avait encore jamais pensé jusqu’à ce jour. Certains avaient échafaudé quelques plans surgis de vagues idées, d’autres touchaient presque au but puis s’en éloignaient rapidement. Un nombre incalculable de savants se sont penchés sur la manière dont on pourrait faire péter la planète en un seul coup, mais personne n’a vraiment réussi à développer l’outil qu’il fallait pour la faire exploser, déjà parce qu’un nombre incalculable de savants n’imaginaient même pas que c’était possible, que ça resterait définitivement du domaine du rêve, alors qu’il suffisait de se pencher un peu sur le problème et de trouver la solution. Une solution vraiment toute bête. C’est si simple et pourtant personne, je dis bien personne personne personne n’y a jamais pensé jusqu’à ce jour ! Alors que c’est vraiment tout bête tout bête tout bête. Il suffisait juste d’y penser. Du coup, maintenant, dès que l’envie me prendra de tout faire péter, j’appuierai sur boum et j’enverrai valser la planète dans l’espace, toute la planète réduite en miette. Plus de plantes, plus d’animaux et plus d’humains. Terminé ! juste avec l’engin que j’ai inventé ce matin sur la table en formica de ma cuisine. Il reste plus qu’à prendre en otage tout le monde, tous les peuples, tous les animaux, toutes les plantes, ou sinon je fais tout péter.

Eric Clémens, à propos de Pas de tombeau pour Mesrine (Al Dante)

TROIS BALLES DANS LE TEXTE

 

SERVITUDE VOLONTAIRE VS. MEDITATION POETIQUE

 

Rien d’étonnant si Pas de tombeau pour Mesrine[1] commence par s’en prendre à la censure éditoriale, à l’incommensurable médiocrité romancière qui correspond à la commande des éditeurs, et s’il en donne d’emblée la raison sociale, l’asservissement volontaire : ce livre découvre une autre façon d’écrire et qui plus est une autre façon d’écrire une « biographie » ! Car son style est singulier, méditatif et poétique à la fois, alors qu’il se devait de raconter une vie en guise de tombeau…

 

Soit donc cette commande : écrire la vie romancée de celui qui fut l’ennemi public numéro, Jacques Mesrine. Et la résistance de l’écrivain Charles Pennequin « à l’incursion cursive dans le roman pour trous-du-cul ». Pourquoi cette résistance ? Parce qu’il s’agit d’inventer une fiction, pas de prolonger une hallucination. Que la figure médiatique de Mesrine ait été celle d’un assassin, d’un bandit de grand chemin ou d’un martyre, l’enjeu n’est pas là : ces trois figures plus ou moins combinées relèvent de l’imaginaire romanesque dont la fonction sociale est de marchander le spectacle par la projection narcissique – on sait l’affligeante domination de la dite « autofiction » dans la production française actuelle. L’enjeu apparaît dès lors : ne pas servir le spectacle, et s’élargit : résister à l’asservissement généralisé. Car le sujet réel du livre est là : dans la question posée à la mort spectaculaire de Jacques Mesrine, au tombeau introuvable du fait de cette spectacularisation et, au bout du conte noir, à l’asservissement spécifique auquel elle a donné lieu.

D’où vient la servitude volontaire à l’époque où nous ne sommes plus censés croire en l’Un, tels les contemporains de La Boétie subjugués par le Roi, puisqu’après tout nous sommes des contemporains de la démocratie représentative ? Question que l’écrivain transcrit : D’où vient « l’étouffement généralisé » que manifeste la vie et la mort, fascinées autant que fascinantes, d’un truand ? Et la réponse, méditée et poétique, apparaît double : de l’époque et de la mort – « sa vraie tombe elle est dans l’époque »…

 

Notre époque, en effet, est « une sorte de couvercle (…) une mise en bière de toute époque un peu révolutionnaire, car notre époque est une époque de pensées révolues, nous sommes des révolus je me dis en marchant dans les allées du cimetière ». Or Mesrine a catalysé cette époque de façon redoublée : se révoltant contre « l’instinct de mort » (c’est le titre de son livre d’un journalisme des plus médiocres) et y cédant dans sa révolte même, par l’assassinat. Nul doute qu’il cherchait à s’évader de mille et une façons, de la prison comme de l’époque, refusant la passivité, l’attente, l’étouffement. Et cela explique la fascination dont il a fait l’objet : « premier de la classe morte de ceux qui ont l’instinct de vivre, il y avait qui sinon personne (…) il n’y avait que l’individu Mesrine face à cinquante millions de consommateurs, il y avait le Un de Mesrine face à tous ces numéros, et le numéro du président de la République ». Autrement dit, dans cette représentation imaginaire de Mesrine-Pennequin, la démocratie consumériste produit un anti-Un qui reste prisonnier de l’asservissement à l’Un : « il y avait le Un tout seul de Mesrine, face à la force, à toutes les forces » ! 

 

Parce qu’il ne sert à rien de se leurrer : dans le sursaut aveugle de vivre, Mesrine a cédé lui-même à l’époque, à l’idée d’une fin du « moderne » préparant le pire « post-moderne ». « Animal poético-médiatique, il faisait son numéro spectaculaire », jouant le jeu journalistique et torturant un journaliste, du même coup cédant à la mort, au fond de tout asservissement. Voilà pouquoi, « si Mesrine était là et qu’il se présentait aux élections présidentielles, il dirait peut-être ça, ne votez pas, mais butez-vous tant qu’il est encore temps, et sortez-vous du tas de votants ». Ce qui témoigne de sa souffrance, certes, mais celle de « l’homme démuni de lui-même, démuni de sa propre histoire, l’homme qui vit au temps de surveiller et punir ». Et qui ne survit que par la mort : « lui ce qu’il voulait c’est vivre, il voulait vivre et se venger de ce qu’on avait gangrené en lui ». La vengeance tue sans action, qui n’a lieu qu’avec les autres pour un autre commencement, sans même un faire poétique, qui n’a lieu que dans les langues des  autres : « Mesrine faisait de l’éthique à deux balles, c’est une sorte de poète, mais à deux balles, c’est un poète avec des barillets »…

 

En travers de cette fiction, l’écrivain Charles Pennequin nous aura effectivement forcé à dévisager notre propre asservissement. Le texte qui clôt le livre l’écrit en caractères gras : « Ça pue la ressemblance la France. La remouvance. Recouvrance de l’Etat. C’est l’Etat France. Ça pue l’Etat car la France ça rassemble. La ressemblance rassemble. C’est le ramassement de tout qui pue parce que ça s’oublie. » En travers du « pas de tombeau », cette fiction poétique médite sur la chance du « pas de mort » dans la vie, la sortie tenace mais lucide de l’asservissement dans le semblant. « Dans tout corps qui pue une idée qui est comme un bouchon. Et qu’il faudra faire sortir. » Pour gagner au dedans la pensée du dehors : « Toute la respiration du dehors. Tout le respirant qui pourrait faire que ça pense dedans… »

                             Eric Clémens

[1] Editions al dante, 2008, 87p.      

Problème numéro 2

Le problème c’est que je ne suis pas un artiste quelque part. Quelque part en moi il y a l’impossible artiste qui est là et qui veille. Car tout ce que je fais n’est pas nourri par la volonté de trouver et de renouveler, d’avoir une nouvelle idée et de la former puis de s’en servir. Tout ce que je fais n’est pas inscrit dans la volonté de se démarquer, puis ensuite de breveter après invention, de rentrer enfin dans le bercail des galeries et dans les discours de vieux qui ont déjà tout fait et tout vu. Je ne sais pas chanter, je ne sais pas poser ma voix, respirer, j’oublie de respirer et de parler par le ventre, et c’est la rage presque seule qui va former le dessin et non la technique. Je n’ai rien contre la technique cependant. Seulement, la technique dépasse les techniciens. Car les techniciens oublient que la technique est plus vieille que le plus vieux des techniciens. Tout comme la technologie. Les technologues s’imaginent que nous sommes encore dans un devenir technologique. Alors que c’est à partir du moment où l’homme arrête d’être singe qu’il est dans son devenir technologique. Les machines ont le mérite d’emboucaner l’intime. L’intime fait gros bruit grace aux machines et non grace au beau grain de voix de l’acteur. Il vaut mieux être un beau grain de fille qu’un beau grain de voix. La voix passe par les oublis de la bande et par les trucages les plus diverses pour dicerner mieux. Mieux dire et cerner soi par la bidouille. Mais est-ce vraiment important de vivre ces passages à la bidouille ? car ce qui reste de l’artiste est bien souvent son passage dans la technique, la forme. Son passage à la forme est son passage par les armes. Les armes des artistes. On peut dire alors qu’il est reconnu parmi les siens. Cependant, tout ce qui dépasse la relation est pour moi sans grand intérêt. L’art doit aussi être là pour la relation. Deux ouvriers peintres qui peignent un mur, un haut mur de béton, ou qui l’enduisent, ces deux travailleurs là sont pris par leur travail et n’ont que des relations minimes entre eux. Pour moi, le drame est là avant toute chose, il nait de l’impossibilité relationnelle entre les êtres. La création doit favoriser la relation. La création est le possible relationnel. Deux hommes qui enduisent ou qui peignent, ou deux travailleurs qui sont dans des bureaux, deux bureauliers ou bureaulières et qui ont des soucis téléphoniques, deux comptables avec des soucis de paperasse, ou toute sorte de soucis ne peuvent se concentrer sur la vie nue. La vie est nue entre nous. Nous faisons tout pour nous éloigner la vie nue. La vie sans rien, sans phrase et sans bagage littéraire et sans technique ouvrière ou artistique. Alors sans doute, le mot relationnel ne va pas. Car déjà un artiste s’est soucié de cela et a fabriqué des précepts pour faire le forcing dans les galeries avec ses nouvelles idées. Et du coup, nous avons inventé « l’esthétique relationnelle », qui est une fumisterie pour les salons, les vernissages et toutes sorte de mondanités. Rien à voir avec ce que nous appelons le problème de la relation. Il y a dans le geste du travail à plusieurs, quelque chose qui passe et obscurcit toute possibilité de voir la vie sous le bon œil. Il y a quelque chose qui pèse, quelque chose qui nous arrive dans l’esprit et qu’on tentera de repousser par tout un tas d’actes qui sont des empêchements pour être vraiment là. Soi-même déjà là et l’autre dans cette possibilité. La possibilité, voyant l’autre là, d’y être également pour lui-même. Cela est la même chose pour ceux qui travaillent dans un bureau, ceux qui œuvrent sur un chantier et ceux qui organisent des manifestations artistiques. Il y a tout un tas de constructions relationnelles, tout un ensemble fort élaboré pour éviter la vraie vie. L’ouvrier va parler à l’autre de choses et d’autres, le secrétaire ou l’employée de banque, le patron et son adjoint parleront dans les moments perdus du bon ou du mauvais temps, le technicien artiste parlera de sa technique artiste en prenant un verre avec une personne du staff technique ou de son public artiste et alors ? qu’en ressort-il de l’humanité ? rien. Il ne ressort rien de l’humain, ou alors des traces individuelles, parce que les hommes sont dans l’incommunicabilité absolue, et donc la chose à faire est de faire parler cette incommunicabilité, et de la faire jaillir de toute part, de désigner l’incommunicabilité à tout instant. Seul l’artiste, dans ses moments lucides, et s’il n’est pas qu’un technologue doublé de velléités de reconnaissance, peut se permettre de le faire et d’ainsi montrer la nudité de tout. Et donc la révolte, car on est prisonnier de la vie du corps. Si le corps s’éteint, et il s’éteint progressivement dans la vie, le corps est un éteignoire pour la vie, si le corps s’éteint donc, nous les artistes et les autres futurs noyés, nous nous retrouvons dedans comme écrasés, écrabouillés dedans entre les différents tuyaux et le sang durci. La vie pour nous est un souffle inéluctable et de toute façon la vraie lutte est déjà avec soi-même, déjà lutter pour soi et contre soi. Car ce qui nous guide, c’est effectivement de repousser l’épuisement. Notre épuisement, car la nuit arrive pour tout le monde et on la sent très vite monter en soi-même. En soi-même la nuit monte. En soi-même la vie s’éteint progressivement et donc vivre est une lutte, vivre c’est être dans la révolte. Si la révolte n’est plus comprise par l’artiste, alors c’est la mort qui l’habite déjà. La mort habite beaucoup d’artistes qu’on dit « vivants ».